Le sfide della viticoltura lucana. Intervista a Rocco Grimolizzi, Presidente Cantina di Barile

La Basilicata del vino è una regione dalle grandi potenzialità. Un settore, quello vitivinicolo, che, seppur quantitativamente contenuto, non cessa di rappresentare uno degli elementi trainanti tra le altre produzioni agricole, grazie all’importanza rivestita non solo sul piano economico, ma anche e soprattutto dal punto di vista ambientale, sociale e culturale.

Tali potenzialità si esprimono al meglio nel territorio del Vulture che vanta il 93% della totale superficie regionale iscritta all’albo dei vigneti DOC. È qui, ai piedi del maestoso monte, che i rilievi lucani degradano man mano in verdeggianti colline, particolarmente adatte alla coltivazione della vite. Principe e figlio di questi luoghi è senz’altro l’Aglianico, anima della millenaria vocazione di queste terre vulcaniche. Fiore all’occhiello della Regione, tale produzione non si impone solo dal punto di vista quantitativo, basti pensare che ben il 40% della superficie vitata è ad essa riservata, ma anche qualitativo. L’Aglianico del Vulture è stato, infatti, la prima produzione ad ottenere la DOC regionale, nel lontano 1971; quasi quarant’anni più tardi, seguita, dal riconoscimento di maggior prestigio, DOCG, per le tipologie “Superiore” e “Riserva”.

Nonostante ciò, anche considerando il leggero aumento della superficie coltivata a vite della Regione, il futuro di questo comparto non può oggi considerarsi particolarmente roseo. Ne parliamo con Rocco Grimolizzi, enologo e Presidente del consiglio d’amministrazione Consorzio Viticoltori Associati del Vulture – Cantina di Barile, che riunisce oggi le cantine cooperative di base e le più antiche aziende viticole che hanno fatto, negli anni, la storia della Lucania.

Prima di tutto, quando e come nasce la Cantina di Barile?

«La storia del Consorzio ha inizio nel 1977 come cooperativa di produttori per il conferimento delle uve per la trasformazione, e ad oggi abbraccia un po’ tutto l’areale di produzione del Vulture, da Venosa a Tito, passando per Melfi, Rionero e Rapolla, al fine di estrarre il meglio da ogni Comune. Barile ne è il fulcro. Parte integrante dell’associazione nazionale Città del Vino, può vantare questa secolare vocazione».

Ce ne parli.

«Ripeto spesso che è la nostra terra la prima grande fortuna concessaci, per la quale non possiamo che essere grati. Alla sua origine vulcanica c’è da associare una tradizione millenaria che vede proprio nell’orografia dei luoghi la sua ragion d’essere. Mi spiego meglio: Barile sorge a 664 m s.l.m. su due colline tufacee. Ed è proprio nel tufo lavico che i primi immigrati albanesi, nasciamo come colonia arbëreshë nel 1477, scavano le prime grotte adibite alla trasformazione delle uve e alla conservazione del vino. A testimoniare la medesima storia, lo stemma del paese: un barile tra due alberi d’abete campeggiato da un grappolo d’uva».

Quindi la vostra produzione è da sempre stata incentrata sull’Aglianico?

«Le nostre origini e le nostre radici fanno da eco alla tradizione millenaria di questi luoghi. Certamente l’80% della nostra produzione è incentrata sull’Aglianico, ma ci tengo particolarmente a sottolineare come la Cantina di Barile nasca, prima di tutto, come spumantificio. Oggi, ovviamente, le pratiche di spumantizzazione si sono radicalmente evolute, ma questa tradizione non si è mai interrotta».

Quali spumanti producete attualmente?

«Un Moscato, aromatico e dolce, ottenuto con metodo Charmat; un brut ricavato da uve bianche selezionate; un rosato e uno spumante dolce abboccato, ottenuti entrambi da uve di Aglianico, con metodo Martinotti-Charmat. La fermentazione a basse temperature, in quest’ultimo caso, permette di estrarre il colore pur mantenendo la gradazione zuccherina. Il risultato è un prodotto fresco e piacevole, godibile, di cui andiamo particolarmente fieri».

Di quante etichette parliamo?

«Dieci, a cui si aggiungerà presto una new entry, poco prima di Natale. Ma come ho già detto le nostre energie sono impegnate soprattutto dalla produzione di Aglianico, che nella DOCG trova la sua migliore espressione, seguendo uno stretto disciplinare il quale prevede la selezione di vigneti storici, particolarmente maturi, che superano i trent’anni di vita, con una produzione di 70 quintali per ettaro. A ciò si aggiungono i tre anni di maturazione prima dell’immissione in commercio. Pratica che valorizza ancor di più un vino particolarmente vocato a un invecchiamento di lunga durata».

Le stime di Assoenologi, Ismea e UIV con la collaborazione di Masaf e Regione, parlano, per il 2024, di una produzione di 45 migliaia di ettolitri in Basilicata. Una variazione del 30% rispetto all’annus horribilis che è stato il 2023, ma sempre sotto la media dei 76 migliaia registrata tra il ’19 e il ’23. Con quali occhi dobbiamo leggere questi dati?

«Il 2023 è stato davvero una grande disgrazia per tutto il settore vitivinicolo. La peronospora ha fatto strage di vigneti nel Vulture, e non solo, con perdite fino all’80%. Quest’anno l’andamento stagionale caldo asciutto ha evitato gli attacchi fungini, assicurando un’alta qualità delle uve, ma di contro la siccità ha decretato un calo della produzione. Ciò apre delle necessarie considerazioni sulla crisi idrica che il territorio sta vivendo, agli interventi che non sono stati messi in atto, nel corso degli anni, da chi di competenza, per portarci fino all’attuale stato di emergenza».

A tal proposito, la superficie vitata nelle regioni del centro-sud ha si è vista ridotta, in quindici anni, di quasi un terzo. La Basilicata è passata dagli oltre novemila ettari del 2010 ai quattromila del ’15 (fonte Istat), per contare oggi poco più di cinquemila ettari. Cosa ci raccontano questi numeri?

«I fattori sono sicuramente molteplici. Da un lato vi è sicuramente un consumo del vino in costante calo; dall’altro, il mancato rinnovo generazionale nelle aziende agricole gioca sicuramente la propria parte. Da esperienza diretta non posso che tristemente testimoniare l’abbandono progressivo dei vigneti, assieme alle cantine private ad essi afferenti, anche da parte di quelle famiglie che, in una comunità piccola come la nostra, producevano il vino per loro stessi. Questo sgretolarsi del settore mette in crisi non solo la filiera associata, ma l’intero tessuto sociale di un ambiente che rifletteva nella viticoltura la propria storia e la propria identità di comunità».

Quale può essere, a suo avviso, il punto di svolta per riemergere da questa crisi?

«Personalmente non ho una ricetta. Questi ultimi anni ci hanno messo a dura prova. Dopo il periodo covid e l’arresto delle vendite, le cose sembravano poter ripartire, ma ad oggi come possiamo guardare al futuro con serenità? Gli sbalzi produttivi, il cambiamento climatico e l’inflazione galoppante non ci permettono di poterlo fare. Ultimamente va molto di moda la parola “resilienza”, non la amo particolarmente, ma credo che se riusciremo ad incarnarla, a resistere, a mantenere le posizioni, potremo dire che ce l’abbiamo fatta e gioirci di esser stati bravi. Essere capaci di leggere e prendere coscienza dei molteplici cambiamenti in atto al fine di sovvertire questa trama è, certamente, la sfida più grande da affrontare, ma non tocca a noi soli farlo».

 

Simona Pellegrini